Calzoni, macchina a spirale per pompa, 1934
Calzoni, macchina a spirale per pompa, 1934

I musei del lavoro industriale in Italia

Una identificazione precisa dei musei dell’industria non sempre è possibile, vi sono infatti musei scientifici che hanno un rapporto diretto con la storia delle tecnologie industriali, è il caso del Museo Leonardo Da Vinci di Milano, che si chiama “museo della scienza e della tecnica” (lo stesso vale per l’importante “museo nazionale della scienza e della tecnica” di Catalogna con sede a Terrassa) per sottolineare un legame innegabile al di là delle peculiarità locali, a partire dalla lamentata separatezza tra scienza e industria nel nostro Paese.
D’altro canto vi sono musei del lavoro contadino che forniscono elementi su una vicenda che ha assunto un andamento travolgente: l’industrializzazione se non la scientificizzazione dell’agricoltura. In ogni caso sono numerosi i musei che documentano la meccanizzazione del lavoro contadino, simboleggiata dall’introduzione del trattore.
Una ulteriore dimensione a cui qui si può solo dedicare un accenno concerne la cultura operaia, le condizioni di vita di lavoratori e lavoratrici di fabbrica e delle loro famiglie. Sia pure con impostazioni differenziate esistono musei dedicati al mondo del lavoro industriale in tutti i Paesi europei, ed è possibile individuare, a grandi linee, i principali modelli nella rappresentazione della cultura operaia di fabbrica: quelli sorti per influsso dell’archeologia industriale, quelli legati alla storia della tecnologia di impianto positivistico, quelli legati al movimento operaio e alla storia del lavoro, quelli attenti alla quotidianità piuttosto che all’innovazione. Su questo sfondo, che rimanda a peculiarità nazionali, si sta affermando una sorta di modello europeo che combina l’adozione delle nuove tecnologie sul piano dell’allestimento e della divulgazione con la centralità dell’asse storico-sociale dal punto di vista dei contenuti. L’Italia è rimasta a lungo estranea a questo rinnovamento, da noi, al contrario, mentre si diffondeva in profondità, ben oltre il tradizionale triangolo, il processo di industrializzazione, si aveva un’ampia diffusione dei musei della cultura contadina ma nessun museo dedicato alla condizione operaia. L’investimento ideologico oscurava l’attenzione per gli aspetti concreti della storia operaia, dal sapere tecnico alla vita quotidiana.
Solo di recente la situazione è cambiata, sull’onda del forte e rinnovato interesse che un po’ ovunque si sta manifestando per i musei, a cui si affida la memoria del Novecento e di un modo di produrre superato dall’avanzare della “nuova economia” globalizzata. In questa ottica gli operai di fabbrica non sono diversi dai contadini, anch’essi appartengono ad un “mondo che abbiamo perduto”. Non è quindi un caso che negli ultimi anni si sia registrata una spinta diffusa verso “musei spontanei”, di ambito locale, dedicati al lavoro di fabbrica o di miniera. Anche in Italia, come negli altri Paesi europei di vecchia industrializzazione, sorsero nella seconda metà dell’Ottocento dei musei aventi per obiettivo di far conoscere e propagandare lo sviluppo delle industrie, nonché per sostenere la ricerca scientifica applicata alla tecnologia. Il primo fu quello di Torino, sorto nel 1872, il Regio Museo Industriale Italiano, che contribuì poi alla nascita del Politecnico della capitale subalpina. Nei decenni successivi, dopo il consolidamento di una vera base industriale, tali istituzioni vennero smantellate, e si dovettero attendere gli anni Cinquanta perché il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, concepito molto prima, potesse aprire i battenti.
Per capire tali esiti, accanto al peso di una tradizione nazionale di lungo periodo non vanno dimenticati altri influssi culturali che diventano particolarmente efficaci perché poco o nulla contrastati da diverse concezioni della cultura. Richiamiamo soltanto l’egemonia dell’idealismo, secondo cui la Wissenschaft, in quanto scienza non utilitaria, implica la rigida subordinazione del sapere tecnico; solo il sapere per il sapere esprime la nobiltà dello spirito indifferente ai bisogni materiali ed inferiori della vita. In questo ambito i musei possono svolgere unicamente una limitata funzione pedagogica, in vista di una illusoria democratizzazione della scienza; il che apriva la strada agli attacchi dell’alta cultura élitaria e delle avanguardie artistiche contro i contenitori di memoria congelata, visti, nell’età delle “esposizioni universali” e della produzione di massa, ora come sorpassate macchine ideologiche ora come vettori della mercificazione.
L’Italia, nella fase di avvio della sua rivoluzione industriale, ha notoriamente sofferto della carenza di materie prime per l’industria, mentre è riuscita a sviluppare alcuni significativi comparti delle attività di trasformazione, sino a diventare un Paese industriale di notevole importanza. Non tutti sanno che la sua posizione nella graduatoria mondiale dei Paesi più industrializzati è rimasta pressoché invariata nel corso dell’ultimo secolo. Nonostante queste caratteristiche, i musei dedicati alla storia dell’industria non sono riusciti ad affermarsi, neppure alla conclusione del ciclo fordista sull’onda dell’archeologia industriale, diffusasi in modo capillare al di là della “moda” dei primi anni Ottanta. Si può dire che il settore che ha ricevuto le maggiori attenzioni, specie da parte del sistema delle autonomie, è quello minerario, di importanza marginale nel modello italiano di industrializzazione.
Anche in questo caso i progetti sono rimasti spesso sulla carta, ma non mancano musei e parchi minerari operativi o che stanno per diventarlo. In Valle d’Aosta esiste il Museo minerario alpino di Cogne, aperto nel 1990 e dedicato allo sfruttamento (sino al 1979) del giacimento di magnetite più alto d’Europa. Nel ’92 è stato istituito per legge il “Museo minerario regionale” che dovrebbe articolarsi in diversi poli siderurgico-minerari. A Prali, in Val Germanasca, una zona del pinerolese con giacimenti di talco e grafite, è stata aperta con successo una miniera-museo. Di notevole interesse e in rapida espansione, anche per il diverso contesto culturale, è il Museo provinciale delle miniere di Vipiteno (Bolzano). Oltre alla sede museale di Vipiteno, comprende la miniera e gli impianti di Monteneve- Ridanna, un villaggio minerario, le miniere di rame di Predoi. È uno dei pochi esempi italiani di museo open air pienamente funzionante. In provincia di Brescia, nell’ambito del Parco Minerario dell’Alta Val Trompia, è stata inaugurata la Galleria di Stese di Pezzaze, ex miniera di siderite e fluorite. Nelle diverse regioni, e soprattutto in Toscana, Sicilia e Sardegna, sono allo studio o sono stati formalmente istituiti diversi musei minerari diindubbie potenzialità turistico-culturali. Quelli già aperti e che funzionano al momento sono pochi, segnaliamo comunque il Museo storico minerario dello zolfo di Perticara (Pesaro) e, tra i progetti, il Parco-museo del petrolio a Vallezza (Parma) promosso dall’Agip e dall’Api.
In Piemonte l’esistenza di una importante storia industriale e molte iniziative di studio non hanno prodotto sinora risultati concreti nel settore dei musei industriali. In occasione della mostra “Civiltà delle macchine”, svoltasi nel 1990 al Lingotto di Torino, uno degli organizzatori notava: «ho avuto modo di constatare, cercando di rimettere insieme materiali e pezzi antichi, come le aziende non tengano nulla del loro passato» (F. Mortillaro). Ma proprio i musei aziendali, con preminente attenzione per il marketing, costituiscono il filone più ricco e diversificato nel panorama italiano. A Torino, nel campo del patrimonio storico-industriale, è da segnalare l’attività di studio e conservazione dell’AMMA (Associazione degli industriali metallurgici e meccanici) che promuove la rivista “Culture della Tecnica”. Presso il Politecnico di Torino esiste, dal 1987, il Museo delle attrezzature per la didattica e la ricerca, che raccoglie parte dell’eredità dell’ottocentesco Regio Museo Industriale. Assieme al Museo ferroviario piemontese (riconosciuto dal 1978 ma privo di sede espositiva) dovrebbe essere ricollocato nelle ex Officine ferroviarie Grandi Riparazioni, in controtendenza rispetto alla scelta di cancellare le grandi strutture ex industriali della capitale subalpina, per la saldatura di spinte speculative e culturali.
Concepito negli anni Trenta il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica di Milano, inaugurato nel 1953, è il più grande museo industriale italiano. Diviso in 28 sezioni copre un arco cronologico e tematico molto vasto, avendo come fulcro ideale la figura di Leonardo Da Vinci, a cui il museo è dedicato.
In tempi recenti, anche con mostre temporanee, si è cercato di rinnovare un’impostazione delle collezioni di tipo ottocentesco, bisognosa di radicali innovazioni concettuali e di allestimento. Il Museo vive principalmente sulla fruizione didattica, che copre circa l’80% delle visite, anche per il rapporto istituzionale mantenuto a lungo con il Ministero della Pubblica Istruzione. In questo settore il rinnovamento è stato più incisivo, con la creazione di “laboratori” che incontrano il favore di docenti e allievi. Nel 2000 è stata realizzata la trasformazione del Museo in Fondazione di partecipazione e sono stati individuati quattro progetti strategici per lo sviluppo del Museo, dedicati rispettivamente a: il Dipartimento del Mare; il Dipartimento dell’Agricoltura e dell’Alimentazione; Milano energia e ambiente 2000; il Museo Virtuale. Accanto al ruolo tradizionale di conservazione delle collezioni, l’accento viene posto sulla diffusione della cultura scientifica. È un’impostazione coerente con l’identità e la funzione svolta dal Museo milanese, mentre resta in ombra la storia sociale della tecnica e del lavoro, un campo di studi che da noi è poco frequentato specie nei suoi sviluppi novecenteschi, da cui la presenza marginale dell’Italia in associazioni quali l’ICOHTEC (International Committee for the History of Technology).
Si tratta di un approccio che sta avendo qualche peso negli studi di archeologia industriale, settore in cui molto intenso è stato l’impegno dei Musei Civici di Lecco. Si segnala il lavoro per un percorso attrezzato nella Valle del Gerenzone (“la via del ferro”) e la realizzazione di due itinerari nel territorio lariano (“le vie della seta”) che dovrebbero, tra l’altro, rilanciare l’attività di alcuni musei industriali del settore: il Museo didattico della
seta di Como inaugurato nel 1990, il rinnovato Civico Museo Setificio di Abbadia Lariana all’interno di un filatoio e di una filanda ottocenteschi, il Museo della Seta Abegg di Garlate, con un grande torcitoio in legno del XVIII secolo.
Innumerevoli i progetti non decollati, come il Museo d’area dell’archeologia industriale lungo il medio corso dell’Adda, dove vi è una concentrazione di monumenti di primario interesse (Ponte in ferro di Paderno, opifici, centrali idroelettriche, ecc.). Complessa ma avviata è l’operazione di conservazione del villaggio operaio di Crespi d’Adda, inserito nella lista dei siti di interesse mondiale dell’Unesco. Un Museo del lavoro industriale è stato da tempo proposto per Sesto San Giovanni, una delle culle della grande industria italiana. Attualmente è prevista la creazione di un primo nucleo espositivo che funga da portale per un museo della città.
Ugualmente laborioso risulta il varo del Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, intitolato ad Eugenio Battisti, principale ispiratore degli studi di archeologia industriale in Italia. La realizzazione del Museo è stata promossa dalla Fondazione Luigi Micheletti, a cui si è unita la Fondazione Civiltà Bresciana. Dal 1996 il Museo, concepito come un sistema policentrico, ha veste autonoma ed è presieduto dallo storico Valerio Castronovo. Nonostante la mancanza di una sede centrale adeguata – prevista in un opificio di inizi ‘900 da restaurare – sono state realizzate sezioni di notevole importanza, sia per quel che riguarda i settori tipici dell’industrializzazione bresciana e lombarda (in primis tessile e meccanico) sia allestendo sezioni speciali (cinema e media), nonché prime proiezioni sul territorio: Museo del ferro a S. Bartolomeo, alla periferia della città.
Passando al Veneto non muta un panorama caratterizzato da progetti rimasti sulla carta, ovvero che con ostinazione vengono tenuti aperti nonostante le solite difficoltà. A ciò è da aggiungere la scarsa incisività culturale di strutture di straordinario significato storico, si pensi al Museo navale dell’Arsenale di Venezia, che non riescono nemmeno lontanamente a svolgere un’attività paragonabile a quella di musei analoghi in altri Paesi europei.
Segnaliamo comunque l’importante lavoro di studio e recupero svolto nel vicentino. Mettendo in rete vari piccoli musei esistenti in provincia, è sorto il Museo Territoriale dell’Industria Vicentina (ora confluito nella rete dei Musei dell’Alto Vicentino).
Uno dei pochi musei dell’industria sorto in Italia negli anni Novanta è il Museo del patrimonio industriale di Bologna, localizzato alla periferia della città in una fornace Hoffman, nei pressi del Canale Navile. Il nucleo centrale delle collezioni è rappresentato dai materiali didattici (disegni, modelli, macchine, ecc.) sedimentati in più di un secolo di attività presso la scuola-officina Aldini Valeriani. Partendo da tale realtà il museo rivolge particolare attenzione al tema istruzione-sviluppo, con riferimento alla formazione tecnica e alla crescita della piccola e media industria meccanica bolognese.
Un’altra importante sezione del museo è dedicata all’industria serica (sec. XIV- XVIII) con la ricostruzione di un grande modello di mulino da seta, antesignano del sistema di fabbrica. Il museo, inizialmente denominato Casa dell’innovazione, è dotato di strumenti di comunicazione interattivi, svolge attività divulgativa e di ricerca e pubblica una rivista di buona qualità (il semestrale “Scuolaofficina”).
La Toscana, che vanta un patrimonio storico-industriale di grande importanza, è una delle regioni più ricche di progetti, e non mancano alcune realizzazioni concrete. Tra queste si segnala in particolare il Museo della miniera di mercurio di Abbadia San Salvatore (Siena). Molto ambizioso, e di difficile realizzazione, l’auspicato sistema museale del ferro nell’area litoranea e nell’isola d’Elba, un territorio in cui le attività estrattive e produttive dagli Etruschi giungono sino ad oggi.
C’è un evidente squilibrio tra ciò che esiste, ad esempio il Museo della miniera di Massa Marittima (Grosseto), o il simbolico Museo del ferro di Follonica (Grosseto) e quel che si dovrebbe fare per conservare storia e memoria di un importante passato industriale – si pensi a Piombino -. Per il periodo più recente segnaliamo il progetto di un Parco minerario ed ecomuseo nell’area della grande miniera di pirite di Gavorrano (Grosseto), e soprattutto il recupero culturale delle strutture antiche e medioevali di Campiglia Marittima (Livorno), il cui successo, anche di pubblico, dimostra la percorribilità della valorizzazione del patrimonio storico industriale. Sempre in Toscana, alla fine degli anni Ottanta, è stato istituito l’ecomuseo della montagna pistoiese. Una formula che sta incontrando successo per il diffondersi di una sensibilità ambientalistica. Merita di essere segnalato in tale ambito l’ecomuseo di Argenta (Ferrara).
Nonostante l’innegabile squilibrio Nord-Sud anche in tema di industrializzazione, l’Italia centro-meridionale non è certo priva di un passato produttivo di grande interesse storico, sia per le fasi premoderne che per il Novecento (si pensi a casi come Terni o Napoli). Il panorama dei musei dell’industria, o comunque di strutture deputate alla conservazione e studio del patrimonio industriale, è nondimeno ancora più rarefatto che nel Settentrione. A Roma il museo dell’energia elettrica realizzato dall’Enel (1988), con un’impostazione alquanto tradizionale è stato chiuso e le collezioni sono state destinate ad un museo dell’elettricità che sta sorgendo presso l’Università di Pavia. Notevole successo ha invece incontrato l’esperienza fatta presso la ex centrale Montemartini di Roma (via Ostiense), dove, accanto ai macchinari della prima centrale elettrica romana, l’Art Center Acea ha allestito una mostra di antiche sculture provenienti dai Musei Capitolini. Da qualche anno nell’ambito del “Progetto Musis” è stato costituito un polo di archeologia industriale e storia del lavoro che, al momento, può contare sulle collezioni dell’ITIS Galilei di Roma. La dimensione storico-industriale è presente anche nell’ambizioso progetto romano al momento denominato “Città della scienza”.
In Campania sono stati tenuti a battesimo i primi studi italiani di archeologia industriale, di sicuro il filone che ha dato il maggior impulso al rilancio dei musei dell’industria dopo decenni di abbandono. Le ricerche animate da Eugenio Battisti nei primi anni Settanta su San Leucio, interessante esempio di utopia illuministico-industriale, dovrebbero concretizzarsi in un Museo della seta. Non sembra, invece, che le grandi aree ex industriali di Napoli siano destinate ad ospitare un qualche museo dedicato alla storia e memoria industriale della città; tra le opzioni forti in direzione della scienza e della natura la fase industriale, per altri versi attualissima, rischia di essere cancellata. In ogni caso un grande recupero di archeologia industriale è stato realizzato con la “Città della scienza”, inaugurata nel 1996, allestita in alcuni edifici della gigantesca ex area industriale di Bagnoli.
Di grandi dimensioni è anche il Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa a Portici, sorto nel 1989, ubicato nelle officine meccaniche volute nel 1840 da re Ferdinando II di Borbone. Ancora riconducibile al filone dell’archeologia industriale è l’Ecomuseo delle ferriere e fonderie di Calabria, dedicato all’importante “polo siderurgico” delle Serre calabresi.
Si è già detto della scarsa attenzione delle imprese italiane per il loro passato storico; vi sono però delle eccezioni e un buon numero di musei aziendali. Anche quando non hanno un carattere puramente celebrativo, raramente danno conto del contesto storico, a partire dal tessuto industriale in cui la vicenda della singola impresa va collocata e assume un significato sul piano economico e sociale, tecnico e culturale. Forniamo qui di seguito un elenco puramente esemplificativo: Museo dell’Aeronautica Caproni a Mattarello di Trento, con la ricostruzione dei un’officina degli anni Venti; Museo Beretta a Gardone Val Trompia (BS) nei locali della grande armeria del 1880; il ricco Museo Marzoli di prossima apertura a Palazzolo sull’Oglio; Museo storico dell’Alfa Romeo ad Arese dal futuro incerto, e l’importante Museo dell’Automobile a Torino, a cui si è aggiunto, dal 1995, il Museo della Tecnica Ferruccio Lamborghini a Funo di Argelato (BO); il dinamico Museo della Ducati a Bologna; vari musei della carta, tra i quali il Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano (AN), dedicato alla fabbricazione della carta dal XIII secolo ad oggi; meritano di essere segnalati anche il Museo della Tecnica e del Lavoro MV Agusta a Gallarate (VA), sorto per iniziativa del Gruppo lavoratori anziani nonché il Museo Civico della Bilancia di Campogalliano (MO), sorto ad opera della Cooperativa Bilanciai e con un’impostazione storica rigorosa. Segnaliamo infine il Museo Piaggio di Pontedera (Pisa) che, per consistenza e impostazione, segna un salto di qualità nell’ambito dei musei d’impresa.
Tra i numerosi musei aziendali in campo alimentare ed enologico ricordiamo almeno il Museo dell’Olivo della Fratelli Carli ad Imperia, dove l’obiettivo promozionale è raggiunto attraverso una ricostruzione efficace e di notevole eleganza espositiva.
Un’esperienza molto interessante è quella dei musei legati ad uno specifico distretto produttivo, una peculiarità del sistema economico italiano che ha avuto un innegabile successo, portando l’industrializzazione ben al di là del vecchio “triangolo” e dimostrando forti capacità competitive. Segnaliamo il Museo dello Scarpone e della Calzatura sportiva di Montebelluna (TV), nonché i diversi musei dell’occhiale sorti in provincia di Belluno.
I musei aziendali apparentemente si collocano agli antipodi dei musei spontanei, di fronte impronta identitaria e comunitaria, ma in realtà può anche esserci convergenza allorché il valore aggiunto dato dalla tradizione storica, una sorta di certificato di qualità, o che almeno è recepito come tale dai consumatori, viene a coincidere con la memoria collettiva locale, che vi riconosce la propria storia e ne va orgogliosa. Il museo diventa una sintesi della storia di quella comunità, percorsa attraverso i prodotti del lavoro e del sapere di generazioni non più del tutto anonime.
Più in generale se si considera il differenziale di velocità tra i tempi dell’innovazione tecnologica e quelli della sua assimilazione a livello sociale e culturale, si comprende la funzione che possono svolgere strutture museali non incentrate esclusivamente sulla conservazione e divulgazione delle tecnologie e del patrimonio industriale del passato ma capaci di funzionare come centri di ricerca, di discussione e riflessione attorno allo snodo tecnica-società, confrontandosi con i complessi problemi che derivano alle nostre società post-moderne dalla compresenza di differenti dinamiche temporali. Ci pare che questa sia una via da percorrere per dare sostanza al tempo presente in un mondo sempre più permeato dalla tecnologia industriale e soggetto alla tentazione di liberarsi della storia. Gli stessi musei dell’industria possono soggiacere a questa spinta inseguendo il futuro, ed essendone sempre superati, come nel caso degli science-center. È vero che per catturare il pubblico, esperite le risorse dell’interattività e della virtualizzazione in fondo perfettamente allineate con l’attuale modo di produrre centrato sulla progettazione e simulazione, non resta che puntare sulla spettacolarizzazione, facendo leva sulle emozioni e il gusto estetico di visitatori disponibili a farsi coinvolgere in un’esperienza inusuale. I livelli di lettura e di fruizione possono però essere molto diversi, dal gioco alla conoscenza; in fondo si tratta sempre di fare un viaggio dentro la tradizione forte della modernità, di allestire una macchina culturale in grado di aiutare una comprensione riflessiva del proprio tempo; in ogni caso una bella sfida per chi voglia fare storia con e per un pubblico non specialistico, l’opposto dall’uso politico della storia a cui siamo abituati che ha preso piede nella stampa e nei media.
Su questo sfondo il panorama italiano dei musei dell’industria non è soddisfacente, ma presenta segnali di cambiamento. Oltre ai numerosi progetti mai portati a conclusione, c’è un alto numero di musei regolarmente istituiti ma che esistono solo sulla carta, altri che dopo la fase iniziale sopravvivono a se stessi; la formula del museo locale, mutuata dai musei contadini o etnografici si rivela di scarso respiro, avendo come esito una frammentazione localistica.
Per i musei dell’industria, specie se dedicati al Novecento, la soglia dimensionale ha un peso strategico, d’altra parte, considerata la situazione dell’archeologia industriale, e quella delle strutture che si occupano del patrimonio industriale nel nostro paese, risulta difficile il decollo di un museo nazionale dell’industrializzazione. È un problema di disponibilità di risorse ma anche di concezione del museo in rapporto alla storia dell’industria nello specifico contesto italiano. Risulta in ogni caso auspicabile la costituzione di un sistema nazionale attorno a poli territoriali che diano tutte le garanzie scientifico-culturali. Il ritardo accumulato rispetto agli altri Paesi europei è notevole ma la quantità crescente di progetti e proposte dimostra che il problema è sentito e che vi sono i presupposti per una stagione di rinnovati dibattiti e concrete realizzazioni.

Bibliografia
Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica “Leonardo da Vinci”. Itinerario storico, a cura di G. Majno e C. Sicola, Electa, Milano, 1992.
M. Amari, I musei delle aziende. La cultura della tecnica tra arte e storia, Angeli, Milano, 1997.
L. Basso Peressut, Musei per la scienza. Spazi e luoghi dell’esporre scientifico e tecnico, Lybra, Milano, 1998.
Museo dell’Industria e del Lavoro “Eugenio Battisti”, a cura di M. Negri e P. P. Poggio, Roma, 1999.

Condividi: